venerdì 11 marzo 2011

Il Cigno Nero (Black Swan) di Darren Aronofsky (2010)


- -Il nero cuore del bianco cigno -


L' indotta ambizione della povera Nina - e quindi la di lei vita - è contigua all' ordine della madre assorta a Dio: invidia e rabbia emergono come ardente furia di una donna che brama distruzione/realizzazione della figlia, la dilaniata pelle della giovane ballerina, pelle come prima forma d' arte, lancinata di continuo, è metafora non solo del fulcro - Imperativo materno - Ma simbolo d' emersione d' angoscia, di quel sempre più esile corpo "Modellato" anche da Vincent Cassell, corpo che grida pietà, pronto ad emettere il canto finale, vomitando tra una visione e l' altra quel malessere cui tutti hanno concorso aldilà di ogni responsabilità...
Certo, il film è geometricamente perfetto come perfetto è il tragico epilogo finale, quasi zen, aderente alla trama ed a quel progetto di vita che vede la bella e brava Portman fuori dai binari e, ironia della sorte, unica ballerina non protagonista perchè carnica rappresentazione dei desideri del branco.
Grande il regista a non affrontare il tema dell' amore: "Nina, non può amare".
Dapprima è ragazza frigida, vergine, per poi "Gemellarsi" e chiudere completamente quel cuore, bianco e freddo come l' algido cigno mai capace di cantare, di affrontare quelle variazioni sul tema "vita" che non si combinano solo in freddi incastri da architetti ed orologiai; la vita è più difficile, imprevedibile, e solo un cuore caldo è capace di sfatarne anche le più proibitive difficoltà.
"Il nero cuore del bianco cigno" è' un sincero omaggio al personaggio di Nina, capace, tramite la danza, di sbatterci in faccia il mal di vivere e dimostrare quanto arcani ed ancestrali dolori trovino spazio in ogni manifestazione, leggasi arte.
D' altr'onde non è forse vero che la civilizzata società - per troppi versi - dietro incantevoli vestigia rifulga di prevaricante ritorno alla preistoria? (CittaDeiDuelli).


venerdì 5 novembre 2010

BURIED, di R. Cortès (2010)


Il tanto osannato "Buried" di Rodrigo Cortés (che ha entusiasmato il Sundance Festival, gran parte della stampa americana, "Bloody Disgusting", e molti altri siti sparsi in giro per il web tutti in fila a gridare al miracolo),  a me non è affatto piaciuto. Non nego che lo script sia interessante, e non nego nemmeno che la regia sappia egregiamente muoversi, in modo millimetrico e preciso, all'interno di un ambiente iperclaustrofobico come quello della cassa di legno in cui è rinchiuso il povero Ryan Reynolds. Tuttavia, se Cortès desiderava orchestrare un film dalla forte connotazione di denuncia sociale della guerra statunitense in Iraq, allora mi verrebbe da chiedergli per quale motivo decide di costringere un "messaggio", peraltro così chiaro, all'interno di una sceneggiatura così limitata. Ci sono, poi, presenti in questo film, molti richiami alla cultura gothic-horror, che sono però buttati lì con una disinvoltura a mio avviso eccessiva: sto parlando delle metafore poeiane della "tomba", del "sepolto vivo", del "gatto nero", che sottorraneamente scorrono come sottotesti impliciti, ma che non sembrano essere minimamente "pensati", "lavorati", all'interno della costruzione narrativa del film. Stiamo insieme a Paul (Ryan Reynolds), per 95 minuti, all'interno di una cassa, presumibilmente interrata, e ci vengono in mente molte cose, naturalmente. Ma Cortès è tutto preso dalla geometria bidimensionale della sceneggiatura, non gli interessa il punto di vista dello spettatore, e gli regala sprazzi di "tridimensionalità" sensoriale solo quando fa intervenire il cellulare e le voci fuoricampo dei vari funzionari del governo americano, come ulteriori protagonisti del film. Poche altre cose avvengono all'interno del buco maledetto in cui è sequestrato l'autista americano, e non poche volte, durante la visione della pellicola, ci domandiamo  inoltre come mai i sequestratori, in un ambiente guerresco e turbolento come l'Iraq, possano trovare il tempo di organizzare una trappola in stile "Saw", con tanto di gadget tecnologico (il telefonino). Voglio dire che sotto diversi aspetti (sottotesti impliciti, andamento surreale della sceneggiatura, lentezza di alcuni tratti di pellicola) "Buried" rimanda un retrogusto di improbabilità e autoreferenzialità, che sembra  voler trovare autogiustificazione nella denuncia sociale di cui si fa bandiera. Non è tuttavia così semplice tenere insieme tutto, poichè infatti non è sempre vero che "tutto si tiene", soprattutto se parliamo di rappresentazione cinematografica. E' vero che, per esempio, che la perfetta fotografia del catalano Eduard Grau, abbinata ai sapienti movimenti di macchina di Cortès, generano una coerenza visivo-prospettica d'insieme che convince, ma il legame tra "visivo",  "narrativo", "sottotestuale", e soluzione finale dell'intreccio, non sembrano (almeno dal mio punto di vista) legarsi in modo coerente e cioè convincente. Regia: Rodrigo Cortés. Sceneggiatura: Chris Sparling. Fotografia: Eduard Grau. Cast: Ryan Reynolds, Yosè Marìa Yazpik (voce), Ivana Mino (voce), Garcia Perez (voce), Joe Guarneri (voce). Nazione: Spagna, USA Produzione: Versus Entertainment, The Safran Company. Anno: 2010. Durata: 95 min.